Iguala e la guerra che nessuno vuole vedere

Città del Messico, 19 ottobre 2014
(Foto di copertina cortesia di Agencia Autónoma de Comunicación Subversiones)

Lo volevano fare, lo potevano fare, e l’hanno fatto. Quello che è successo il 26 settembre scorso a Iguala, nello stato di Guerrero, non è stato un incidente, non è stato un uso sproporzionato della forza, non è stato un atto indisciplinato di alcuni esponenti delle forze di polizia che si sono investiti del ruolo di paladini dell’ordine pubblico. E, nonostante le speculazioni, non è stata nemmeno una dimostrazione di forza del cartello Guerreros Unidos in una lotta di “controllo di piazze”. I sei morti e ventisette feriti, i cinquantasette studenti scomparsi di cui quattordici ritrovati e quarantatré ancora chissà dove, rientrano in una strategia precisa, da decenni vigente in Messico, con momenti di alterna fortuna. È la strategia del terrore che ha ucciso e fatto sparire decine di dissidenti negli anni Sessanta e Settanta, al tempo della Guerra Sucia; che si è modernizzata nel sessennio del presidente Fox, con la Guerra al Narcotraffico; che si è abbattuta nel 2006 su città come Oaxaca e San Salvador Atenco, reprimendo la mobilitazione cittadina con una violenza tanto esemplare da pesare ancora oggi sulla riorganizzazione del movimento e l’appoggio della società civile. Sono dimostrazioni, esempi, prove, test. Della violenza dei militari, dell’impunità della polizia, della corruzione della politica, della resistenza del popolo. Il governo messicano misura la pericolosità e la capacità di reazione dei suoi “nemici interni”, e lo fa sottoponendoli a una violenza sfacciata, cruenta, in quella che non è più nemmeno una repressione della dissidenza ma è diventata una guerra asimmetrica contro la popolazione. Tutti coloro che pensano, scrivono, parlano, controbattono, protestano, resistono sono pericolosi. Come coloro che domandano, registrano, fotografano, filmano, commentano, diffondono, approfondiscono, indagano. E come coloro che cucinano, tessono, coltivano, allevano, pescano, barattano. Per non essere un nemico del Messico, in Messico, devi tacere, credere e comprare.

Nello stato di Oaxaca gli abitanti delle comunità in resistenza contro i megaprogetti delle multinazionali straniere si difendono da esercito e paramilitari della sicurezza privata con bastoni e fionde. Ogni tanto qualcuno muore, in circostanze ambigue, che non vengono mai chiarite. Nel mese di maggio, il congresso dello stato di Puebla ha approvato la cosiddetta “Legge proiettile”, sulla regolazione dell’uso della forza. Il 9 di luglio, vigente questa legge, in un operativo a San Bernardino Chalchihuapan, in cui sono stati usati lacrimogeni, granate e proiettili di gomma per disperdere la folla che protestava contro una riforma dell’ordinamento municipale, la Polizia Statale ha sparato in testa al tredicenne José Antonio Martínez, provocandone la morte. A Tlatlaya, nello stato di México, alla fine di giugno, un commando dell’esercito ha giustiziato ventidue giovani presumibilmente appartenenti al crimine organizzato dopo che, in seguito all’incursione dei militari, si erano arresi. Di fronte alle sollecitazioni dell’Associated Press, il governo dello stato ha reagito rifiutando di rendere pubbliche le autopsie e ha classificato i documenti come “segreto di stato”, blindandone la consultazione per i prossimi nove anni. L’organizzazione internazionale Human Right Watch ha affermato che se questo caso di giustizia militare sommaria sarà confermato, ci si troverà di fronte al più grave massacro occorso nel paese negli ultimi anni. Non avevano ancora visto Iguala. Non avevano ancora visto il volto scorticato di Julio César Mondragón, studente di 22 anni della Normale di Ayotzinapa.

Negli ultimi giorni la fotografia del corpo del giovane con la maglietta alzata sull’addome e la faccia strappata ha fatto il giro del web, come anche le immagini delle fosse comuni in cui si ritiene che siano stati gettati i cadaveri di almeno 17 degli studenti tuttora dispersi. Descrizioni precise che includono impressioni olfattive, scatti invasivi che catturano particolari macabri. Fuori dal Messico questi sono dettagli allucinanti. Dentro il Messico, questi sono solo dettagli. In un articolo della BBC si legge che “sembra impossibile che nei dintorni di Iguala, qualcuno abbia tirato 28 corpi in sei fosse, per in seguito bruciarli”. Beh, non è vero, non sembra affatto impossibile. Qua è una notizia di tutti i giorni, nemmeno più da copertina. Sono troppe le storie di madri rapite, bambine stuprate, uomini uccisi, torturati, squartati, impiccati, sciolti. Ne ho lette da chiudere gli occhi e ascoltate da tapparmi le orecchie. Negli stati del nord, nei narcostati, ma anche in quelli del centro e del sud, nessuno sfugge alla follia di cartelli e controcartelli. Il Messico è una gigantesca macelleria aperta ventiquattroacca, sette giorni su sette, un immenso obitorio en plein air. Ci sono posti dove qualunque persona che ti ferma a parlare ha una ferita che sanguina, un fratello, un padre, uno zio, un cugino, una nipote, una figlia, una sorella. Scomparsi, svaniti nel nulla, inghiottiti da un qualche buco, in una qualche terra, da qualche parte. Oppure ritrovati, pezzi di carne rinchiusi in un sacco di plastica nera, membra spaiate in una coperta tirata all’entrata di casa, lingue nere che pendono all’alba dalla balaustra di un ponte. Corpi, corpi bruciati, amputati, violentati, corpi-messaggio, corpi-intimidazione, corpi-minaccia. Corpi dappertutto. Il Messico è una bocca vorace che mastica corpi, alcuni li sputa, altri li trangugia senza lasciare tracce. Questo paese sta selezionando i suoi figli, chi può vivere e chi deve morire, e lo fa in tanti modi diversi ma sempre con determinazione, lucidità, efficacia. E quelli che devono morire sono molti di più di quelli che possono vivere.

I fatti di Iguala sono semplici. La sera di venerdì 26 settembre, un’ottantina di alunni della Scuola Normale Rurale di Ayotzinapa raccoglieva fondi per andare a Città del Messico alla manifestazione in memoria degli studenti massacrati a Tlatelolco nel ‘68. Non ci sono mai arrivati perché la Polizia Municipale li ha massacrati a loro volta. Sono semplici i fatti di Iguala, e per quanti dettagli si possano aggiungere, la realtà non dev’essere cambiata.

Adesso sono passate più due settimane e il clima è di guerra civile. I genitori degli scomparsi hanno dato un ultimatum al governo per il ritrovamento dei loro figli, che ovviamente non è stato rispettato. Il 13 ottobre i normalisti hanno occupato il Palazzo di Governo della capitale di Guerrero Chilpancingo e dato alle fiamme l’edificio che si conosce come Tierra Caliente. Lo stesso giorno, con una dinamica ancora da chiarire, agenti della Polizia Ministeriale Statale hanno aperto il fuoco contro un altro gruppo di studenti, appartenenti al TEC di Monterrey. In tutto il paese le manifestazioni di appoggio e solidarietà ad Ayotzinapa si rincorrono, portandosi dietro conseguenze diverse, a seconda di dove vengono organizzate. Il 14 ottobre, nello stato di Michoacán, soggetti non meglio identificati hanno sparato contro l’autobus in cui viaggiavano un gruppo di abitanti di comunità indigene diretti alla capitale Morelia per prendere parte alle proteste.

Dal punto di vista dell’assistenza alle vittime lo Stato è rimasto – e rimane – muto. Il Cartello Guerreros Unidos invece ha parlato, e da subito, con le sue “narcomantas” che minacciano altre stragi di innocenti se i poliziotti detenuti in seguito al massacro non saranno liberati. La gente si chiede quali altre prove servano perché la collusione dello stato coi narcos sia considerata un dato di fatto.

Anche la guerriglia ha alzato la voce, per prime le Forze Armate Rivoluzionarie-Liberazione del Popolo (FAR-LP), un gruppo presentatosi l’anno scorso nel giorno dell’anniversario della morte di Lucio Cabañas, che il 1° di ottobre ha diffuso in rete la sua condanna di autorità governative, forze dell’ordine e narcotrafficanti, promettendo a breve un intervento sul territorio. Il 5 ottobre ha scritto l’EPR, l’Esercito Popolare Rivoluzionario, definendo i fatti del 26 settembre un “crimine di stato pianificato dal comando unico poliziaco-militare” e dichiarando la tesi dell’infiltrazione del crimine organizzato un grottesco tentativo di diluire la responsabilità governativa, inserendo altri attori nella vicenda. Il 6 ottobre è stata la volta dell’ERPI, l’Esercito Rivoluzionario del Popolo Insorgente, che ha invitato i suoi affiliati, ma anche la popolazione civile, a entrare a far parte della “Brigata Popolare di Esecuzione 26 di Settembre, espressamente fondata per combattere politico-militarmente questo nuovo affronto del narcostato messicano e, in particolare, il cartello di sicari dello Stato che si fa chiamare, a torto, Guerreros Unidos”. Il 7 ottobre, infine, “dalle montagne del Sud-Est messicano”, ha parlato per gli zapatisti il Subcomandante Insurgente Moisés, invitando tutti gli aderenti alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona a mobilitarsi in favore di Ayotzinapa.

Per tutta risposta lo Stato ha fatto sapere che prenderà provvedimenti contro il “terrorismo interno”, e poi ha eluso i riflettori accesi su Guerrero ed è tornato nello stato di Puebla, con un commando di polizia che il 18 ottobre ha fatto irruzione nella comunità di San Bernardino Chalchihuapan, quella dei fatti di luglio, battendo casa per casa alla ricerca dei partecipanti alle manifestazioni. Questi sono i provvedimenti, e il luogo dell’attacco non fa differenza perché l’obiettivo tanto è lo stesso: distruggere i movimenti sociali.

In Messico c’è la guerra e nessuno vuole vederla. Per i turisti questo paese è una spiaggia assolata inframezzata da rovine precolombiane. E i messicani sono un popolo da copertina di Lonely Planet, che sonnecchia rannicchiato in un poncho sotto a un sombrero gigante. Per i nostalgici delle rivoluzioni passate è tutt’un impegno politico del tempo che fu, fotografie sociali di Tina Modotti, pitture denuncia di Diego Rivera, la Kahlo che ospita Trotsky a Coyoacán. E i messicani un popolo di valenti affiliati all’Internazionale Socialista. E poi ci sono gli integralisti dell’Altromondoèpossibile, che costruiscono latrine ecologiche a spron battuto e se non si parla di indigeni e ritorno alla sussistenza non vogliono sapere di niente. E gli investitori, che si spartiscono le risorse rimaste, per disgrazia ancora molte, multinazionali senza volto né nome ma anche “imprese modello”, come l’Enel, che in Italia vince il Premio Immagini Amiche 2013, promosso dall’Unione Donne Italiane, mentre qua si lancia nell’eolico dell’Istmo di Tehuantepec, alla faccia di donne come Bettina Cruz, attivista indigena costantemente sotto minaccia e attualmente in attesa di giudizio per la sua resistenza contro le imprese straniere. Ognuno prende dal Messico quel che gli serve e quasi nessuno restituisce. Questa guerra è comoda a tutti, per questo nessuno la vuole vedere.

Ayotzinapa ha scosso il paese e i suoi intorpiditi abitanti, ha ferito tutti, anche chi non è guerrerense, anche chi non è messicano. Perché tutti conosciamo i Normalisti, che si ostinano a insegnare a chi il governo non vuole che impari, che portano viveri e medicine a chi secondo la logica di questo mondo putrefatto dovrebbe morire di fame e di stenti. Perché sono tutti ragazzi tra i diciassette e i vent’anni. Perché l’eco delle voci delle loro madri ci tiene svegli la notte, non come attivisti, giornalisti o quel diavolo che siamo, ma come esseri umani. Perché questa barbarie ci fa vergognare di appartenere alla stessa specie di chi l’ha perpetrata. Perché a vivere in questo splendido e disgraziato paese dopo un po’ ci si stanca di rimanere sempre e solo con una data, una lista di nomi e delle t-shirt che dicono che non si dimentica e non si perdona. Il Messico può salvarsi ma ha bisogno che la gente apra gli occhi, che crollino i clichés, che gli internazionali solidali lo vedano, accettino e aiutino per quello che è, e non per quello che vorrebbero fosse. Le risoluzioni internazionali non sono mai servite a niente e non cominceranno a essere utili adesso. Mercoledì 15 il Parlamento Europeo ha deciso di discutere il caso come “tema urgente”, ma gli interessi dei partiti al potere non hanno bisogno di visti per passare frontiere e nessuno si aspetta una svolta effettiva. I Normalisti si stringono attorno alle famiglie delle vittime e dei sequestrati, lunedì 20 inizia il piano per occupare i mezzi di comunicazione di Chimpalcingo e preparare la mobilitazione nazionale con epicentro in Iguala, prevista per mercoledì 23.

Nessuno sa davvero cosa succederà, come nessuno sa davvero cos’è successo. L’unica certezza è che gli studenti non si trovano. Padre Solalinde, il direttore del rifugio per migranti di Ixtepec, dice che sa da fonti sicure che li hanno bruciati, alcuni ancora vivi. La Polizia Comunitaria della Costa Chica batte a tappeto boschi e radure ma Guerrero è un labirinto di fosse comuni e senza una confessione o un indizio esumare e analizzare tutto quel che si trova è impensabile. Il grido “vivi li hanno portati via e vivi li rivogliamo” rimbomba in tutto il paese e, per la prima volta da quando vivo qui, vedo la famosa “rabbia degna” prendere forma attorno a me. E, per la prima volta da quando vivo qui, credo di provarla anch’io.

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