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Pronto? Qui parla la comunità

per Comune-info

Villa Talea de Castro, Oaxaca. Arriviamo a Villa Talea de Castro alle quattro del pomeriggio, dopo che il vecchio scuolabus statunitense s’è arrampicato per cinque ore su cento chilometri di curve e smottamenti. Nella Sierra attorno a Oaxaca gli spostamenti prendono tempo, le strade sono malconce e solo i turisti possono permettersi il lusso di viaggiare per la sola ragione di fare un viaggio. La ragione che muove noi, invece, si legge sullo schermo del cellulare quando entriamo in centro al paese: “Benvenuto alla rete cellulare di Talea. Per registrarti vai alla radio con questo messaggio”.

Da quando, nel marzo scorso, il progetto di Pedro, un trentenne originario di Philadelphia, è diventato realtà, questa storia ha fatto il giro del Messico, e del mondo. Si tratta del primo sistema di telefonia cellulare interamente realizzato e gestito con risorse e criteri comunitari. Hanno parlato di innovazione tecnologica, sfida al monopolio, qualcuno l’ha persino chiamato miracolo. In realtà, Pedro ha solo ascoltato le esigenze delle comunità zapoteche della Sierra Negra, quelle che per anni si sono viste rifiutare i ripetitori di Telcel e Moviestar perché popolate da un numero di abitanti inferiore a 5mila, e ha trovato il modo di rispondervi.

Non ha compiuto un miracolo, Pedro, ma ha soddisfatto una necessità concreta con un servizio utile, realizzato con una strumentazione già presente sul mercato. Una tecnologia alla portata di tutti, se solo la cosiddetta società civile si decidesse a riappropriarsi delle proprie potenzialità, senza aspettare che il governo o la holding di turno accorrano in suo soccorso e le regalino una comodità fasulla, troppo facilmente convertibile in schiavitù.

Il software con cui questa tecnologia funziona è aperto, e presto lo sarà anche l’hardware, il che significa che non esistono, e non esisteranno, brevetti, patenti o diritti su questo progetto. Esiste ed esisterà solo la volontà di condividere conoscenza e progressi in una maniera comune e comunitaria da parte delle persone che stanno già vivendo un altro mondo possibile.

Le leggi del Messico, con le loro clausole solo in apparenza generiche ma invece ben mirate alle comunità indigene, hanno involontariamente aiutato. Il Municipio di Villa Talea de Castro, autogovernato da autorità comunitarie attraverso la formula degli “usos y costrumbres”, ha potuto sfruttare la postilla della Legge delle Telecomunicazioni che permette la creazione di un servizio di telefonia cellulare alternativo nelle aree escluse da quello nazionale.

Anche il monopolio messicano delle telecomunicazioni, in un certo senso, ha contribuito al successo del “miracolo” di Villa Talea con la privatizzazione folle e la completa mancanza di concorrenza, che ha lasciato libera una parte dello spettro delle frequenze gsm. Non avevano previsto, certo, l’eventualità che un brillante comunicatore statunitense incontrasse due sistemisti ventottenni di Genova, e che insieme i tre mettessero in funzione un “ricessore”, ossia un trasmissore con un ricettore al suo interno, che emette e riceve un segnale in una frequenza captata dai cellulari, creando una rete.

Pochi lo sanno, ma il primo progetto di telefonia cellulare comunitaria del mondo parla anche italiano, un italiano macchiato delle espressioni “straniere” di quelli che continuiamo a chiamare i nostri “cervelli in fuga”, senza renderci conto che a volte a scappare non sono solo i cervelli ma anche i cuori. Perché la piroetta tecnica che è stata fatta a Talea non ha a che vedere coi progressi tecnologici capital-consumistici, è il traguardo di una collettività.

L’idea che soggiace è quella che regge anche le radio comunitarie, ossia che ogni comunità possa possedere, amministrare e maneggiare un equipaggiamento e una competenza atte a soddisfare i propri bisogni in termini di comunicazione. Esattamente come avviene negli altri settori politici ed economici. E l’incastro perfetto dell’autonomia comunitaria ha permesso la fondazione di una cassa di risparmio, che ha favorito la nascita di una cooperativa comunale, che ha prestato alla municipalità i quasi venticinquemila dollari necessari all’acquisto dell’attrezzatura. Un investimento iniziale che la comunità si auto-restituirà attraverso la quota fissa mensile che dà diritto all’uso illimitato di chiamate e messaggi all’interno dell’area di copertura e a un sistema di ricariche che connettono a prezzi irrisori gli abitanti di Talea con parenti e amici all’estero.

È un cerchio perfetto quel che è successo a Talea, destinato a non rimanere un isolato esperimento riuscito ma a venir replicato in altre comunità in cui si stanno dando le medesime condizioni favorevoli. Il processo a monte è identico, non ha a che vedere con la disponibilità economica di alcuni ma con il consenso di tutti. Senza assemblea comunitaria, senza discussione, senza valutazione dei pro e i contro, senza convivialità, non si sarebbe realizzato alcun progetto. Rhizomatica non avrebbe nemmeno ragione di esistere. Del resto, non c’è nulla che la tecnologia delle comunicazioni possa fare per una comunità che non sa riunirsi, discutere, condividere e convivere. Nessun ultimo potente ritrovato della tecnica sarà mai abbastanza ultimo e abbastanza potente da riconnettere realmente chi ha perso la capacità di parlarsi e, soprattutto, di ascoltarsi. La grandezza dell’esperienza di Talea non sta solo nella bravura tecnica di chi l’ha realizzata ma soprattutto nella convivenza e nell’organizzazione comunitaria che l’hanno resa possibile.

La fiera del Tejate

IMG_1035per Erodoto108 –  Oaxaca de Juárez (Messico)
31 marzo 2013

Alla Central de Abastos gli autobus per San Andrés Huayapam sono presi d’assalto. È il giorno della Feria del Tejate, l’Evento con la maiuscola, l’appuntamento che le donne del paese preparano per un anno intero, perché l’invito raggiunga ogni angolo di Oaxaca, perché il cibo sia eccellente, perché ci sia tejate in abbondanza e sia delizioso. Farina di mais, chicchi di cacao fermentati, semi di mamey, acqua, sciroppo di zucchero e Rositas de cacao, i fiori del Rosital, che si trovano solo qui e rendono il pueblo celebre in tutto lo stato.

Siamo a venti minuti dal centro di Oaxaca de Juárez, in un paese sdraiato in cima a una salita, sulla sinistra della strada che dalla città porta a Las Presas, le dighe, ennesima intrusione dell’uomo che scambia gli elementi naturali e mette l’acqua dove c’era la terra.

La prima volta che sono stata a Huayapam era notte, attorno a me solo le colline brulle per la stagione secca, poche le luci, persa in un labirinto di ciottoli e mattoni. Nessun bar o ristorante propriamente detto, solo tiendas di frutta, verdura, quesillo e pane. E qualche comedores aperto fino a tardi, dove chiedere informazioni. Tutto a misura delle due-tre mila persone che vivono in questa comunità zapoteca, un incastro di strade parallele e perpendicolari alla principale, dove sta la chiesa di San Andrés. Oggi invece il paese risplende, tirato a lucido per i suoi ospiti, un formicaio di teste che ciondolano immerse nell’impietosa luce del Messico. A fine giornata saremo stati quasi trentamila a passare di qua.

L’autobus avanza lento lungo la via principale, non pretende che la folla si sposti, tiene il suo passo. Boccheggio pigiata in una lamiera rovente che non mi lascia scendere perché non siamo ancora arrivati. Quando le porte si aprono è un vento secco che mi investe, un odore caldo di carne alla griglia, e un fiume ondeggiante di bocche incollate a bicchieroni schiumosi.

La Bebida de los Dioses tremola nei recipienti di terracotta, una pasta chiara viene a galla leggera, è la parte grassa del cacao, che non si scioglie con l’acqua e rimane compatta a fluttuare tra i blocchi di ghiaccio. Mani depositarie di un segreto millenario vi affondano sapienti, le guardo ipnotizzata e voglio sapere di più, conoscere la storia, ma dalle mani sale una voce a dire che non è oggi il giorno per parlare.

Ritorno a Huayapam il venerdì santo. Il paese è quello di sempre e non so ritrovare le mani che mi hanno parlato il giorno della festa. Ne incontro altre, le guardo compiere gli stessi gesti, la jícara dipinta di fiori rossi che affonda nella coppa di terracotta verde. Devo chiedere, e per chiedere devo prima offrire, quindi compro un tejate e parlo di me. Una gentile reticenza è quella che incontro, e il suggerimento di rivolgermi ad altre mani, perché queste sono forestiere, anche se vivono in paese da molto. Ci metterò un’ora, altri due bicchieri di tejate e due belle fette di nicuatole prima di ottenere l’indirizzo di doña Carmelita, una delle sette integranti del Comitato per la Promozione del tejate che, come tale, è responsabile anche dei “rapporti con la stampa”. Doña Carmelita mi siede di fronte a una pentola piena di zuppa e racconta.

Viene da lontano il tejate, da prima che i popoli messicani venissero “scoperti” da genti con la metà della loro storia ma il triplo delle loro armi. Viene da lontano e porta con sé il ricordo di un rituale antico, quando dai paesi vicini si veniva a Huyapam a prendere l’acqua da versare nei propri pozzi, sperando che potesse chiamarne altra, come una calamita. Il tempo ha sbiadito il rito, adesso la vera cerimonia è la feria che, diffondendo il tejate tra chi ancora non lo conosce, contribuisce ad aumentarne le vendite. Ma il piccolo pozzo al centro del paese continua a esistere, e a offrire la sua “acqua calamita” alle comunità confinanti. Doña Carmelita parla di un mondo scomparso, di quando il tejate era la bevanda energetica dei campesinos, fatta di solo mais e flor de rosital. E si chiede cosa direbbero gli antenati nel vedere gelato, biscotti, nicuatole e persino tamales di tejate.

Ma la storia non aspetta, avanza con o senza di noi, tanto vale cercare di tenere il suo passo. E allora quattordici anni fa quaranta donne del paese hanno deciso che era tempo di promuovere il loro lavoro e si sono unite per organizzare una grande festa, i cui invitati sarebbero stati iniziati alla delizia del tejate. Così è nata la feria, una domenica della “festa del Cristo”, ed è stata un successo che negli anni non ha smesso di crescere.

Oggi le quaranta donne sono diventate centotrenta e si sono organizzate nella cooperativa “Unione delle Produttrici di Tejate”, la stessa che elegge annualmente il Comitato per la Promozione e il Coordinamento di cui doña Carmelita è parte. Essere parte della cooperativa significa impegno e responsabilità ma soprattutto condivisione, degli entusiasmi, delle ricette e delle spese, perché il tejate è una buona fonte di reddito e il municipio di Huayapam chiede trecento pesos per l’affitto di una piazzola durante la fiera, mentre la traballante burocrazia oaxaqueña non traballa poi tanto quando si tratta di controllare che i venditori ambulanti siano in regola coi pagamenti. Alla mia domanda su cosa succede alle donne che non sono parte della cooperativa doña Carmelita si stranisce. Non succede niente, è una libera scelta e chi decide di non compierla non viene criticato per questo. Il metodo comunitario con cui si lavora a Oaxaca non è uno scherzo, le riunioni sono lunghe e faticose, prendere decisioni per consenso richiede tempo e pazienza e non stupisce che qualcuno lo consideri un impegno gravoso se riferito al tejate. Stupisce piuttosto che si possa pensare che dall’appartenenza a una cooperativa dipenda l’appartenenza a una comunità, o che esistano luoghi in cui le decisioni sono prese da pochi ed eseguite da tutti gli altri. Mi vergogno delle mie domande, che vengono da un altro mondo e non hanno ancora imparato che qui non troveranno risposte, perché sono prive di senso.

In Messico le categorie prestabilite non servono, quello che si immaginava dall’Europa si rivela un’etichetta vuota che nemmeno si avvicina alla complessità di questo paese che più che un luogo fisico è un magma di sensazioni, tutte forti, e non tutte positive. A chi sostiene che in America Latina, a differenza che in Africa, ci si possa mimetizzare, rispondo di venire ad affacciarsi da queste parti, e poi riparliamo di mimetismo. Non c’è scampo a Oaxaca, lo straniero rimane tale qualunque cosa faccia, in qualunque luogo vada, per quanto provi a scomparire e tacere, alla fine compie sempre un gesto, dice sempre una parola di troppo. E si tradisce.

Il colonialismo non è finito in Messico, si presenta sotto altre forme, non per forza più sottili, come i megaprogetti multinazionali che di sottile non hanno proprio nulla. E non è finita nemmeno la lotta contro i colonizzatori, di cui noi europei, che ci aggiriamo per le comunità indigene con le migliori intenzioni e andiamo pazzi per il tejate, restiamo il fantasma.

E io non posso evitare, anche nel clima festoso di Huayapam, anche nel patio amico di doña Carmelita, di pensare che vorrei strapparmi questa pelle bianca, tirarmi i capelli finché si fanno diritti come spaghetti, cavarmi questi occhi verdi e pallati e mettere al loro posto due mandorle brune che, chissà, mi aiuterebbero ad avere una visione più chiara del mondo.

In Messico non esiste neutralità, nemmeno una festa di paese è quello che appare. E una cerimonia ancestrale che riemerge sincretica negli interstizi di una religione imposta lo dimostra. Forse, se la nostra storia e la storia dell’altro fossero relegabili nel passato potremmo dimenticarcele. Ma nella vita di tutti i giorni quelle storie si ripetono, in un balletto di pregiudizi, incomprensioni, sguardi pietosi o feroci, e nell’incomunicabilità tipica dei rapporti in cui il colpevole non è ancora stato perdonato, anche perché non ha ancora chiesto perdono. Ojalá esistesse una ricetta anche per questo, continuerò a cercare.