Pronto? Qui parla la comunità

per Comune-info

Villa Talea de Castro, Oaxaca. Arriviamo a Villa Talea de Castro alle quattro del pomeriggio, dopo che il vecchio scuolabus statunitense s’è arrampicato per cinque ore su cento chilometri di curve e smottamenti. Nella Sierra attorno a Oaxaca gli spostamenti prendono tempo, le strade sono malconce e solo i turisti possono permettersi il lusso di viaggiare per la sola ragione di fare un viaggio. La ragione che muove noi, invece, si legge sullo schermo del cellulare quando entriamo in centro al paese: “Benvenuto alla rete cellulare di Talea. Per registrarti vai alla radio con questo messaggio”.

Da quando, nel marzo scorso, il progetto di Pedro, un trentenne originario di Philadelphia, è diventato realtà, questa storia ha fatto il giro del Messico, e del mondo. Si tratta del primo sistema di telefonia cellulare interamente realizzato e gestito con risorse e criteri comunitari. Hanno parlato di innovazione tecnologica, sfida al monopolio, qualcuno l’ha persino chiamato miracolo. In realtà, Pedro ha solo ascoltato le esigenze delle comunità zapoteche della Sierra Negra, quelle che per anni si sono viste rifiutare i ripetitori di Telcel e Moviestar perché popolate da un numero di abitanti inferiore a 5mila, e ha trovato il modo di rispondervi.

Non ha compiuto un miracolo, Pedro, ma ha soddisfatto una necessità concreta con un servizio utile, realizzato con una strumentazione già presente sul mercato. Una tecnologia alla portata di tutti, se solo la cosiddetta società civile si decidesse a riappropriarsi delle proprie potenzialità, senza aspettare che il governo o la holding di turno accorrano in suo soccorso e le regalino una comodità fasulla, troppo facilmente convertibile in schiavitù.

Il software con cui questa tecnologia funziona è aperto, e presto lo sarà anche l’hardware, il che significa che non esistono, e non esisteranno, brevetti, patenti o diritti su questo progetto. Esiste ed esisterà solo la volontà di condividere conoscenza e progressi in una maniera comune e comunitaria da parte delle persone che stanno già vivendo un altro mondo possibile.

Le leggi del Messico, con le loro clausole solo in apparenza generiche ma invece ben mirate alle comunità indigene, hanno involontariamente aiutato. Il Municipio di Villa Talea de Castro, autogovernato da autorità comunitarie attraverso la formula degli “usos y costrumbres”, ha potuto sfruttare la postilla della Legge delle Telecomunicazioni che permette la creazione di un servizio di telefonia cellulare alternativo nelle aree escluse da quello nazionale.

Anche il monopolio messicano delle telecomunicazioni, in un certo senso, ha contribuito al successo del “miracolo” di Villa Talea con la privatizzazione folle e la completa mancanza di concorrenza, che ha lasciato libera una parte dello spettro delle frequenze gsm. Non avevano previsto, certo, l’eventualità che un brillante comunicatore statunitense incontrasse due sistemisti ventottenni di Genova, e che insieme i tre mettessero in funzione un “ricessore”, ossia un trasmissore con un ricettore al suo interno, che emette e riceve un segnale in una frequenza captata dai cellulari, creando una rete.

Pochi lo sanno, ma il primo progetto di telefonia cellulare comunitaria del mondo parla anche italiano, un italiano macchiato delle espressioni “straniere” di quelli che continuiamo a chiamare i nostri “cervelli in fuga”, senza renderci conto che a volte a scappare non sono solo i cervelli ma anche i cuori. Perché la piroetta tecnica che è stata fatta a Talea non ha a che vedere coi progressi tecnologici capital-consumistici, è il traguardo di una collettività.

L’idea che soggiace è quella che regge anche le radio comunitarie, ossia che ogni comunità possa possedere, amministrare e maneggiare un equipaggiamento e una competenza atte a soddisfare i propri bisogni in termini di comunicazione. Esattamente come avviene negli altri settori politici ed economici. E l’incastro perfetto dell’autonomia comunitaria ha permesso la fondazione di una cassa di risparmio, che ha favorito la nascita di una cooperativa comunale, che ha prestato alla municipalità i quasi venticinquemila dollari necessari all’acquisto dell’attrezzatura. Un investimento iniziale che la comunità si auto-restituirà attraverso la quota fissa mensile che dà diritto all’uso illimitato di chiamate e messaggi all’interno dell’area di copertura e a un sistema di ricariche che connettono a prezzi irrisori gli abitanti di Talea con parenti e amici all’estero.

È un cerchio perfetto quel che è successo a Talea, destinato a non rimanere un isolato esperimento riuscito ma a venir replicato in altre comunità in cui si stanno dando le medesime condizioni favorevoli. Il processo a monte è identico, non ha a che vedere con la disponibilità economica di alcuni ma con il consenso di tutti. Senza assemblea comunitaria, senza discussione, senza valutazione dei pro e i contro, senza convivialità, non si sarebbe realizzato alcun progetto. Rhizomatica non avrebbe nemmeno ragione di esistere. Del resto, non c’è nulla che la tecnologia delle comunicazioni possa fare per una comunità che non sa riunirsi, discutere, condividere e convivere. Nessun ultimo potente ritrovato della tecnica sarà mai abbastanza ultimo e abbastanza potente da riconnettere realmente chi ha perso la capacità di parlarsi e, soprattutto, di ascoltarsi. La grandezza dell’esperienza di Talea non sta solo nella bravura tecnica di chi l’ha realizzata ma soprattutto nella convivenza e nell’organizzazione comunitaria che l’hanno resa possibile.

El milagro de Radio Totopo

IMG_2723Juchitán de Zaragoza, Istmo de Tehuantepéc (México)

Las mujeres juran que se movió. La noche entre el 4 y 5 de septiembre, a la víspera del 147° Aniversario de la Batalla de Juchitán y del relanzamiento de la Radio Comunitaria Totopo, las rezadoras de la Séptima Sección estaban velando la cruz de madera comisionada por la Asamblea Popular del Pueblo Juchiteco (APPJ), cuando la vieron moverse.

Claramente las leyes de la física contradicen sus palabras, pero a las mujeres no les importa, ya están acostumbradas a ver su verdad negada. Con el eólico, después de todo, pasa lo mismo: desde cuando empezó la resistencia a los proyectos transnacionales en las tierras comunales del Istmo de Tehuantepéc los habitantes vieron sus denuncias sistemáticamente desmentidas y silenciadas, pero no por eso desistieron de creer en lo que veían en favor de lo que les contaban. Al contrario, su lucha se intensificó al intensificarse de las mentiras difundidas por los tres niveles de gobierno y la prensa local. Esta misma cruz, protagonista del supuesto milagro y que se encuentra en los nuevos locales de Radio Totopo, constituye un acto de resistencia. Las iglesias locales, de hecho, negaron su apoyo a la Asamblea, demostrando que las voces que corren acerca de los financiamientos recibidos por las comunidades católicas y los comités organizadores de las velas de la parte de las empresa extranjeras, aunque no tengan evidencias, tienen sentido. Sin embargo, esta falta de respaldo de la parte de las autoridades religiosas no desanimó los comuneros, en sus mismas palabras“ la protección que necesitamos nos viene directamente de Cristo, que es el más grande luchador social”.

Así, bajo el cobijo de un “Cristo revolucionario”, el día 5 de septiembre la nueva sede de Radio Totopo empezó a llenarse desde las diez de la mañana de amigos, simpatizantes y periodistas de la prensa libre, que convergieron para acompañar la marcha de conmemoración de la victoria en contra del ejercito francés de 1866. Al ritmo de la música tradicional puesta al aire por Radio Totopo (la inauguración oficial tuvo lugar a las cuatro de la tarde pero la radio ya estaba transmitiendo), la misma preparación de la fiesta volvió a ser una fiesta y, una hora después, entre mototaxis adornados con plataneras y niños a caballo, el desfilé salió por las calles de Juchitán.

Durante toda la marcha, las ovaciones a la fuerza y unidad demostrada hace un siglo y medio en ocasión de la expulsión de los franceses se alternó a los llamados para renovar esta misma fuerza y unidad, ahora en contra de una nueva invasión extranjera, la de las empresas de energía supuestamente limpia.

El rechazo a los proyectos eólicos fue lema constante en todos los discursos de los representantes de los pueblos indígenas del Istmo, junto con la exhortación a resistir a la estrategia de las compañías extranjeras, que ofrecen dinero a los comuneros para dividirlos y alcanzar sus objetivos de una manera aun más sucia que la de las concesiones gubernamentales. Una de las grandes riquezas del Istmo, aún mayor del tan ambicionado viento, es de hecho la unidad y hermandad de los pueblos originarios y la contaminación del mar y la tierra no son más graves de la contaminación de estas amistades milenarias. Así que, a distancia de dos semanas del llamado a la unidad de los pueblos originarios al que asistimos en el CNI de San Cristóbal de las Casas, el relanzamiento de Radio Totopo parece inscribirse también en este eje de lucha, además de reafirmarse centro neurálgico de la defensa de la tierra y territorio.

El valor de este proyecto de comunicación comunitaria está confirmado por la represión gubernamental que, notoriamente, reprime con una fuerza directamente proporcional a la con que sus intereses son obstaculizados. Por eso, después del allanamiento y destrucción del equipo que la radio sufrió en el marzo pasado, su relanzamiento al aire el pasado jueves 5 de septiembre, a pesar que la Santa Cruz se haya movido o no, nos permite afirmar que sí, Radio Totopo hizo un milagro.

La polifonía rítmica de la resistencia

IMG_2707Ciudad de México
31 de agosto 2013

México hierve. En el auditorio de la Unitierra en San Cristóbal de las Casas, en el sótano de un edificio abandonado del Distrito Federal, en el barrio Séptima Sección de Juchitán de Zaragoza. El país hierve a ritmos diferentes, en una mezcla de corridos chiapanecos, sonidos electrónicos y música istmeña y resulta difícil imaginar algo más peligroso desde el punto de vista del poder institucional que esta diversidad que se va uniendo para construir sus propias formas de resistencia y autonomía.

El agosto chiapaneco ha sido una prueba general. La Escuelita organizada por el EZLN, igual que la Convergencia de Medios Libres que la precedió y el Consejo Nacional Indígena que siguió, sembraron en el sureste mexicano unos miles de “cuestionadores del sistema”, entre activistas sociales, líderes de movimientos y personas solidarias con los pueblos en resistencia. A lo largo de catorce días el CIDECI se transformó en una forja muy peculiar de relaciones internacionales, en la que trajes y trenzas tradicionales discutían con piercing y rasta, estableciendo enlaces de lucha de un lado al otro del océano. Después de una semana, las consecuencias empiezan a verse.

Este jueves 29 de agosto salió un comunicado de la Asamblea Popular del Pueblo Juchiteco (APPJ)[1] que convoca a campesin@s, estudiantes, pescadores, pueblos originarios del Istmo de Tehuantepec y del mundo, organizaciones y medios de comunicación nacionales e internacionales, para que acompañen las actividades del 147° aniversario de la batalla de Juchitán contra la invasión francesa y el relanzamiento del proyecto de comunicación comunitaria Radio Totopo. Esta radio, nacida en 2005 para promover la cultura y lengua zapoteca, siguió informando a las comunidades sobre las amenazas de los proyectos transnacionales hasta el 26 de marzo del presente año, cuando fue desmantelada en el marco de una amplia operación represiva. Desde este entonces la tensión nunca disminuyó y la situación sigue siendo crítica: el 25 de agosto los integrantes de la APPJ fueron agredidos a balazos mientras recorrían los terrenos comunales para constatar las afectaciones del proyecto eólico Bii Hioxho, impuesto por la transnacional Gas Natural Fenosa, que viola las leyes mexicanas de terrenos comunales por resolución presidencial de 1964, el convenio 169 y el derecho de los pueblos originarios a la consulta previa, libre e informada[2]. Radio Totopo, punto de referencia para los pueblos Binnizá, que realizó la traducción de los contratos con las empresas transnacionales al idioma zapoteco y los transmitió por la radio, es un símbolo de la resistencia de los istmeños y su relanzamiento no estará libre de consecuencias.

Paralelamente, en el Distrito Federal, maestros de varias secciones integrantes de la CNTE convocaron a los medios libres para una campaña de contrainformación que volvió a denunciar las mentiras de la prensa oficial sobre las motivaciones del rechazo de la Reforma Educativa, el levantamiento del plantón en el centro de la Ciudad de México y el paro indefinido proclamado por algunas secciones del magisterio. Las voces de los maestros en resistencia hasta ahora no se habían escuchado en ningún programa televisivo o radiofónico oficial, ni se habían reportado sus palabras en la prensa comercial, medios en los que se dio gran énfasis a las críticas de algunos ciudadanos afectados por el congestionamiento del tráfico debido a marchas y plantones. De la misma manera, no se dio difusión a las propuestas alternativas a la de Peña Nieto, como el Plan de Trabajo Educativo de Oaxaca (PTEO) que los maestros de la Sección XXII elaboraron desde hace varios meses y que intenta responder a las exigencias reales de las comunidades a quienes está dirigido. La diversidad cultural es una de las riquezas más grandes de México y una reforma que no toma en cuenta esta diversidad y pretende uniformarla en un único modelo de supuesto “desarrollo educativo” no constituye un avance para el país sino una regresión, acentuando la marginalización de las áreas rurales y aumentando la distancia entre las clases sociales. La convocatoria por parte de los maestros a los medios libres para que informen sobre lo que la prensa oficial omite demuestra una vez más que en México existe un cerco mediático que la mayor parte de la gente no percibe y está directamente relacionado con el afán de silenciar la imposición de reformas de huella neoliberal como la educativa o la energética, un silencio que se traduce en abierta ventaja para las clases dominantes.

La protesta de los maestros en el Distrito Federal y la convocatoria de la APPJ en el Istmo de Tehuantepec representan sólo dos de las burbujas calientes que agitan México, pero son indicativas del número cada día más elevado de personas que empiezan a rebelarse frente a la falta de consideración y respeto de las instituciones. Los acontecimientos de este fin de verano dejan presumir que en México la temporada más caliente todavía no ha empezado.

Nota: La voz de los maestros del CNTE se puede escuchar en el centro histórico del Distrito Federal a través de la frecuencia libre 102.1 FM o en línea en http://www.radiozapote.org/escuha-nuestros-materiales-grabados/ y una información más detallada se puede encontrar en el blog educacionresistencia.wordpress.com

[1]Asamblea de los Pueblos Indígenas del Istmo en Defensa de la Tierra y el Territorio, disponible en línea en tierrayterritorio.wordpress.com

[2]Id.

(Re)militarización y revisionismo histórico

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Ciudad de Guatemala
28 de julio 2013

Viniendo de Oaxaca, después de varios días de viaje en Guatemala, el miércoles 24 de Julio nos sentimos por fin a gusto. Por supuesto la bienvenida que nos dio la Comunidad 29 Diciembre tuvo que ver con esta emoción, pero lo que nos hizo sentir como en casa fue la sensación de estar “bajo control”, transmitida por el helicóptero que alrededor de las 9 de la tarde nos paso arriba de las cabezas. La verdad es que no sabemos ni el tipo de helicóptero ni si pertenecía a alguna fuerza armada, a lo mejor no, talvez algún turista estaba disfrutando de los cielos estrellados de Zaragoza, pero “hogar dulce hogar” fue el pensamiento de tod@s. Porque, de hecho, el Estado de Oaxaca y el Departamento de Chimaltenango tienen varios aspectos en común, como a final de cuenta los países de México y Guatemala. Desigualdad social, despojo de tierras para la realización de megaproyectos, racismo hacia los pueblos indígenas, explotación y marginalización de los migrantes y feminicidios son al orden del día en ambos países, además de una violencia sangrienta que golpea transversalmente cada sector de la sociedad y que se vuelve excusa perfecta para perseguir los líderes de la protesta social y llenar las cárceles de presos políticos. A pesar de la cantidad de militares y policías diseminados en todo el país, de hecho, el número de los crímenes en Guatemala, considerado el tamaño del país, es impresionante: en el primero semestre 2013 se cometieron 2266 homicidios con arma de fuego, 261 con arma blanca, 81 estrangulamientos, 14 linchamientos y 21 desmembramientos, a los que se deben sumar las 200 denuncias diarias de extorsión. Evidentemente el esquema del pacto “Paz, Seguridad y Justicia” lanzado por el gobierno de Pérez Molina y destinado a una actividad de seguridad pública civil “pero diseñado con mentalidad militar[1]”, no cumple con el compromiso asumido, a menos que los 274 crímenes más con respecto al mismo periodo de 2012 sean considerados un logro.

Sin embrago desde al menos tres años varias asociaciones sindicales y campesinas, juntas a organizaciones de derechos humanos, intentan llamar el atención sobre la remilitarización de un país que a nivel internacional hizo del “nunca más” un lema constante. Remilitarización que hoy en día ya no es un riesgo sino un hecho y que hace preguntar a quien persiguen las fuerzas armadas, si de los 2757 delitos cometidos sólo 79 homicidios con arma de fuego y 11 con arma blanca fueron perseguidos[2].

En 2012 la Red por la Paz y el Desarrollo de Guatemala (RPDG) denunciaba que “detrás de la densa cortina de humo de la violencia delincuencial, continúan los ataques contra el movimiento social” y citaba los casos del asesor del magisterio nacional Enrique Torres asaltado el 25 de enero y fallecido el 8 de febrero, de los dirigentes sindicales Luis Ovidio Ortiz, acribillado el 24 de marzo cerca de su casa, y Manuel de Jesús Ramírez, asesinado el 1 de junio al salir de su vivienda, y de Francisco Miguel, asesinado el 1 de mayo en el marco del conflicto por la construcción de una hidroeléctrica en Santa Cruz Barillas, departamento de Huehuetenango[3]. La oposición a este proyecto, rechazado por la comunidad entera, fue causa también de la detención arbitraria de diez pobladores, hecho que confirma “la persistencia en Guatemala de una violencia selectiva por motivaciones políticas y del uso de la criminalización como herramienta para acallar la protesta social”.

La criminalización en contra de líderes comunitarios sigue adelante, como destaca el estudio del Centro de Reflexiones Nim Poqom del marzo del presente año, señalando la muerte de dos ancianos en la Finca La Primavera de San Cristóbal Verapaz, la persecución contra lideres comunitarios en la región de Tezulután, los patrullajes de militares en la región del Polochic en Alta Verapaz y la Franja Transversal del Norte y la creación de oficinas de inteligencia en casi todas las gobernaciones departamentales, sobre todo en los departamentos considerados de mucho conflicto como Huehuetenango, San Marcos, Alta Verapaz, El Quichè y Petén[4]. Guatemala entonces ya está remilitarizada o mejor dicho, nunca se desmilitarizó. Y lo que hace más ruido es que la comunidad internacional, la misma que hace diez y siete años se demostró tan cuidadosa en asegurarse que los rebeldes bajaran de las montañas y firmaran los acuerdos de paz, no diga ni una palabra de denuncia en propósito, olvidando completamente que en 1996 sólo una de las facciones en lucha entregó sus armas.

El resultado es la presidencia del general Pérez Molina, la anulación de la condena al exdictador Ríos Montt y sobre todo la posibilidad del ejercito de reorganizarse sin que nadie moleste su actividad y versión de los acontecimientos ocurridos en más de treinta años de guerra civil. La creación de instituciones como la Fundación Contra el Terrorismo[5], con su voluntad de dar a conocer al mundo la verdad sobre la “farsa del genocidio en Guatemala” y su agradecimiento al “amigo Israel que nunca nos falló en las buenas y las malas”, debería dejar asombrado al mundo entero o, por lo menos, al estado de Israel que se supone un experto en la batalla contra el revisionismo histórico y la negación de genocidio. En cambio, las únicas voces que se levantan son las que nunca son escuchadas, hasta que sus denuncias no se vuelven en gritos de dolor.

[1] Carlos Vega, analista de seguridad y justicia de la Asociación de Investigación y Estudios Sociales en Prensa Libre, Guatemala, Domingo 14 de julio 2013.

[2] Id.

[3] ¡No al autoritarismo del Gobierno! ¡No a la remilitarización del poder oligárquico!, Comunicado Nacional e Internacional del Comité Ejecutivo de la Red por la Paz y el Desarrollo de Guatemala, 15 de junio de 2012, disponible en línea en http://www.adital.com.br/site/noticia_imp.asp?lang=ES&img=N&cod=67957

[4] Centro de Reflexiones Nim Poqom, Cuaderno para el debate: los pueblos originarios y el estado de terror, marzo 2013, disponible en línea en http://www.rebelion.org/docs/167842.pdf

[5] http://fundacioncontraelterrorismo2013.blogspot.com/ http://alainet.org/active/66005

La reorganización de los pueblos indígenas

IMG_2250San Pedro la Laguna (Guatemala)
23 de julio 2013

En el patio del Museo Maya Tz’utujil de San Pedro la Laguna, el sagrado fuego ya estaba ardiendo desde hace una media hora cuando los primeros rayos de sol aparecieron detrás del cerro. La doña de la casa frente al Museo nos miraba asombrada desde su balcón, no podía creer que no era una borrachera turística a despertarla sino una ceremonia Maya llevada a cabo por autoridades ancestrales provenientes de las cuatro regiones del país. Desde el 15 al 17 de julio, de hecho, en esta pequeña comunidad Maya Tz’utujil del Lago de Atitlán tuvo lugar la Asamblea Nacional del Gran Consejo Nacional de Autoridades Ancestrales Maya, Garifuna y Xinka de Ixim Ulew. El objetivo indicado en la agenda del encuentro es “fortalecer la estructura organizativa desde los pueblos para la articulación y la búsqueda del camino para la liberación ante el Estado actual”. Un objetivo ambicioso, expresado con términos altisonantes, que pero en el discurso de abertura de la ceremonia, pronunciado por el guía espiritual Alberto Marroquín, se tradujo en el concepto sencillo de volver a sus tradiciones, a su autonomía, a su vida.

Desde Argentina hasta México, el discurso de los pueblos originarios es impresionantemente parecido, como impresionantemente parecido es el intento aplastador de cada uno de estos gobiernos hacía la población indígena. También Brasil, donde las políticas sociales de Lula y luego de Rousseff promulgaban a los cuatro vientos su atención a los sectores más débiles de la sociedad, se está demostrando dispuesto a atropellar los derechos más básicos del pueblo en favor de la organización de un evento tan lucrativo cuanto inútil como la Copa del Mundo. Desde los rincones más desconocidos de América Latina hasta las ciudades más populosas, la denuncia de los pueblos indígenas sigue siendo la misma: los Estados, todos los Estados, forman parte de un “plan de muerte global” que tiene como finalidad su desaparición. Porque por lo que queda del capitalismo, lo que se define ahora “capitalismo por despojo”, no hay enemigos más peligrosos de los que defienden sus tierras, aguas, mares y ríos, en otras palabras los que no están dispuestos a dejarse despojar y que, además, son los más numerosos. En un mundo donde las personas y las relaciones sociales ya no se pueden explotar más, sólo queda un puñado de recursos naturales para garantizar algunos años más de ganancia para los capitalistas. Y es una lástima que no se tomó en cuenta la gran verdad expresada por el expresidente español Aznar cuando en 2008 afirmó que “la ecología es el nuevo comunismo”. Tenía rotundamente razón y, a pesar que los dos términos no tengan nada que ver desde el punto de vista político, por supuesto ambos se destacan para su capacidad de incitar la ira y represión más feroces de sus opositores.

Un activista colombiano por los derechos humanos lo explicó muy bien en un convenio sobre los movimientos sociales que tuvo lugar el año pasado en Italia, cuando recordó la respuesta del general estadounidense Pace frente al Congreso de Estados Unidos. Cuestionado sobre los puntos de interés por la seguridad nacional norteamericana en el área de su competencia (Comando Sur), el general contestó: agua, oxigeno, petróleo, biodiversidad, extractivismo. Así que “en Colombia declararon guerra al pueblo” comentaba el luchador social “porque los Estados Unidos necesitan agua, oxigeno, petróleo, biodiversidad y minerales. Somos un país producto”, continuaba citando el ecuatoriano Alberto Acosta, “existimos sólo para que otros puedan sacar nuestra riqueza. Nos hacen pobres para que podamos tener hambre y luego nos dicen que tenemos hambre porque somos pobres. Pero nuestros países ya no producen comida sino agrocombustibles para alimentar las autos del Norte”. El eco de estas palabras se escucha en los cuatro rincones de la Tierra, desde la India donde la joven escritora Arundhati Roy denuncia la tragedia de los campesinos de las regiones centrales, diezmados por su resistencia a entregar sus tierras a las empresas mineras y bajo a la excusa de pertenecer al grupo armado Naxalita, hasta Uruguay, donde Eduardo Galeano ya en los años Setenta reflexionaba sobre el desequilibrio de un sistema que “no ha previsto esta pequeña molestia: lo que sobra es gente (…) sin trabajo en el campo, donde el latifundio reina con sus gigantescos eriales, y sin trabajo en la ciudad, donde reinan las máquinas: el sistema vomita hombres”[1].

En el marco de esta política internacional de saqueo, despojo y ataque incondicionado hacía los pueblos en resistencia, que se manifiesta a través de planes de destrucción y muerte como el Plan Colombia, el Proyecto Mérida, el Plan Mesoamérica o el Plan Martillo, la respuesta de los pueblos varia de país a otro y, en Guatemala, la voz de los insumisos vuelve a levantarse después de más de un decenio de silencio, debido a treinta años de conflicto interno que sembraron muerte y terror entre campesinos e indígenas, los sectores más golpeados por un genocidio del cual todavía no se habla abiertamente.

En los tres días del encuentro, el planteamiento de cómo alcanzar una forma de autonomía para las comunidades indígenas fue expresado a viva voz por las autoridades ancestrales de todo el país, los pueblos Maya, Garifuna y Xinka siendo bien concientes de los intentos neocolonizadores que ya tienen en jaque a la economía nacional a través de los tratados de libre comercio y de la corrupción de la clase política a todos niveles y que ahora amenazan directamente a sus territorios.

Más en detalle, las autoridades del Norte destacaron las luchas que se están dando en su territorio por el cuidado del medio ambiente y la defensa del territorio, llevadas a cabo en la forma de rechazo a proyectos hidroeléctricos, defensa del Lago Chichó y del río Ixbolay, recuperación de las semillas criollas, oposición al monocultivo y al uso de agroquímicos, además de la constante batalla por el derecho a una educación bilingüe.

En la región Occidental las abuelas y abuelos denunciaron la criminalización de las luchas sociales que se oponen a los proyectos mineros en San Miguel Ixtahuacán y Sipacapa, a los hidroeléctricos en Huehuetenango, Barillas, San Mateo, Santa Eulalia, San Juan Ixcoy, Totonicapán, Sololá y Santiago Atitlán, además que la privatización de la educación bilingüe, el alto costo de la energía eléctrica y la militarización del territorio bajo a la excusa de la seguridad ciudadana. Con respecto al Oriente, la fuente de mayor preocupación resultó el proyecto del Corredor Tecnológico[2], seguido por la explotación minera, siendo el área muy rica en cobre, plata, níkel, uranio y tierras raras. Todos los municipios de la región Izabal, Chiquimula, Jalapa, Jutiapa y Santa Rosa – resultan afectados por estas plagas, a las que se deben sumar la militarización del territorio y persecución de los activistas sociales. Una (mala)suerte compartida por la región del Sur, donde los proyectos mineros e hidroeléctricos afectan a las comunidades de Patzún, San Juan Comalapa, Sumpango, San Juan Sacatepéquez, Palín, Escuintla, Santiago Sacatepéquez, San José Poaquil, Chuarrancho, San José del Golfo. Además, todas las problemáticas planteadas se deben considerar en el marco de la discriminación, desigualdad y racismo contra los indígenas que caracteriza la sociedad guatemalteca desde hace la colonización.

Frente a esta situación, que nos restituye la fotografía de un país donde las profundas heridas de la guerra civil no sólo siguen abiertas sino constantemente alimentadas, las autoridades ancestrales de los pueblos originarios demostraron una gran fuerza de reacción y deseo de reorganizar sus comunidades “desde abajo y a la izquierda”, para utilizar unas palabras de los pueblos hermanos Maya de México. Y la determinación y voluntad de seguir luchando que se vieron en estos días, a pesar del cansancio debido a años de opresión, sugieren que la lucha por el respeto, la autonomía y los derechos de los pueblos indígenas de Guatemala llegará lejano, dando al mundo supuestamente desarrollado otra demostración del poder de la organización comunitaria, del valor de la espiritualidad ancestral y de la importancia de la relación con la naturaleza.

[1] E. Galeano, Las venas abiertas de América Latina, Ed. Siglo XXI, México, séptima edición 2012.

[2] El Corredor Tecnologiaco es un proyecto que busca unir las costas de Guatemala, Puerto Barrios, Izabal con San Luis Moyuta, Jutiapa y que consta de una carretera de 371km de extensión y cuatro carriles que uniría los puertos en los océanos Atlántico y Pacífico, un ferrocarril de carga, oleoductos y gasoductos interoceánicos, así como dos nuevos puertos y un aeropuerto.