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A caccia di Templari

Apatzingán, Michoacán. Miguel ha ventisei anni, ventidue dei quali passati negli Stati Uniti. Lo incontriamo di fronte al municipio di Buenavista Tomatlán, la sera del 28 febbraio, alla festa per l’anniversario del sollevamento in armi delle autodifese cittadine. L’organizzazione del leader locale, Simón el Americano, un altro figlio dell’emigrazione michoacana degli anni Novanta, non ha lasciato nulla al caso. I cantanti di corridos animano la piazza, ci sono tortillas e birria gratis per tutti e se non fosse per il cordone militarizzato che circonda gli astanti, Buenavista sembrerebbe tornata alla normalità.

Eppure qualcosa continua a stonare, questo misto di federali in assetto da guerra e cittadini col mitra al collo che vigilano sulla festa di paese non è “normalità”, anche se per chi ha vissuto anni sotto la repressione templaria ci somiglia molto. Dopo giorni passati in questa terra, Caliente di nome e di fatto, si smette di prestare attenzione a pistole, fucili, M16, AR15, AK47, tutta una serie di sigle e calibri che sul subito hanno un grande impatto, soprattutto visivo, e poi lasciano il posto a una disinvolta indifferenza, come se chiacchierare seduti sotto un albero con un uomo armato fino ai denti fosse consuetudine. In Michoacán, da un anno a questa parte, lo è.

Miguel, cappellino da baseball e tenuta da rapper, è qui con suo cugino, lo stesso con cui un paio d’anni fa ha fatto una scommessa via skype: “se prendete le armi e vi ribellate, torno”. Detto fatto, ora Miguel ci si avvicina per “raccontare alla stampa la sua storia”, il ritorno in Messico per liberare la sua terra, la sua personale “caccia ai Templari”. L’atmosfera di festa lo entusiasma, ci invita a esplorare con lui i dintorni di Apatzingán, per mostrarci gli obiettivi finora raggiunti.

I luoghi che menziona non sono completamente “liberati”, le autodifese vi sono entrate, vi hanno posto dei presidi e vi effettuano ronde regolari nel corso della giornata, però le proprietà del cartello nella zona sono molte e le colline che confinano col municipio di Arteaga sono tuttora una terra di confine, con le autodifese da una parte e i Templari dall’altra. Quattro giorni dopo, il pick up della pattuglia di Miguel passa a prenderci alla stazione degli autobus di Apatzingán, destinazione Ejido di Nueva Holanda.

La prima tappa di questo inaspettato “narco tour” è la Cappella funebre edificata di fronte alla presunta tomba di Nazario Moreno González, alias El Chayo o El más loco, leader e ideologo dei Cavalieri Templari santificato in seguito alla sua presunta morte avvenuta nel 2010. Il passato 9 marzo San Nazario è morto per la seconda volta, si dice quella definitiva, ma non potrà usufruire di questo luogo di culto già pronto perché ormai questa è “terra recuperata”.

I vetri della Cappella sono rotti, al suo interno solo un paio di vasi di fiori di plastica rovesciati. Nel terreno antistante si rincorrono trentun croci bianche, una accanto all’altra, nomi e soprannomi dipinti in corsivo quasi completamente sbiaditi, al centro la croce più alta, quella del Chayo. È difficile immaginare come doveva essere questo luogo quando i Templari se ne occupavano, quando vi svolgevano le loro funzioni pseudoreligiose e nessuno si azzardava a venire a verificare se e come i discepoli rendevano omaggio al loro “santo patrono”.

Quel che si può immaginare invece è come doveva essere una riunione d’affari, perché la seconda tappa è una casa di proprietà dello stesso Nazario Moreno e che serviva come base organizzativa. È una costruzione di dimensioni modeste che però comparata con le case di mattoni e lamiera circostanti sembra una reggia, con le sue colonne dipinte di verde e l’aria condizionata. Non vi è rimasto nulla di degno di nota, un quaderno scarabocchiato, un leggio, una tunica bianca con croce vermiglia e alcuni cappucci parte della “divisa cerimoniale” templaria che qualcuno ha tirato in un angolo. Però al muro è rimasta appesa una mappa con tracce di rotte disegnate e poi cancellate, ed è facile immaginare una riunione di narcos incappucciati che decidono come e dove muovere cosa, seduti nel fresco di una sala decorata con pacchiani stucchi corinzi, immersi nell’immobilità di un’aria torrida dove nessuno si azzarda ad aprire la porta di casa, sperando di non venire costretto a farlo. Viene naturale chiedersi se non ci si stia suggestionando, se quest’atmosfera da film non stia influendo sulla propria capacità di leggere gli eventi.

La risposta è no, la scena descritta, con tutta la sua carica surreale, non è poi tanto lontana da quelle cui si trovavano realmente di fronte gli abitanti di questa terra dove il sentimento sovrano era, ed è tuttora, il timore. I Cavalieri Templari davvero corredavano le loro attività delittive con un apparato scenografico fatto di tuniche, mantelli, spade e rituali di vario genere, il cui risultato era una struttura criminale ammantata di mistero, con affiliati che si credevano paladini armati dell’ordine sociale e un’ideologia che mischiava sacro e profano, culto della personalità di San Nazario e indottrinamento psicologico dei nuovi adepti. Gli abitanti di Nueva Holanda ora salutano le pattuglie delle autodifese di passaggio, ma ancora non varcano il confine del proprio patio, le strade continuano a essere deserte, nessun bambino che gioca, nessuna donna che stende, lava o cucina all’aperto.

La terza tappa è una collina poco lontana, dove Miguel e i suoi “compagni di caccia” hanno rinvenuto diversi beni di cui i Templari si sarebbero liberati dandosi alla fuga. Il pendio è cosparso di oggetti gettati alla rinfusa, borse di plastica contenenti caricatori vuoti, cellulari bruciati, note di conti. I tre armati aprono il cammino e rimangono attenti che gli unici movimenti sul monte siano i nostri. Rovistiamo tra i sassi, uno di noi trova la “ricevuta di pagamento” di un riscatto. È uno scenario che sembra costruito ad hoc, spontaneo chiedersi se esista l’eventualità che sia così. Però dovremmo supporre che per qualche ragione questi ragazzi abbiano deciso di montare, apposta per noi e in uno dei luoghi più pericolosi del Municipio di Apatzingán, un teatro curato nei minimi dettagli, con tanto di ritrovamento reperti. E questa possibilità appare improbabile almeno quanto ciò che stiamo vivendo appare irreale.

Sulla via del ritorno ci fermiamo a casa di Miguel, per un’intervista e perché possa mostrarci il pezzo più impressionante della “collezione templaria” finora rinvenuto: una spada costellata di simboli massonici e che reca i vuoti di quelle che dovevano essere pietre preziose incastonate. Una volta di fronte alla spada, nel patio della casa ancora in costruzione di questo ragazzo venuto da oltre frontiera a “combattere per un Messico migliore”, l’atmosfera di tensione improvvisamente crolla. Questi integranti delle Autodifese tornano ad essere quello che sono, ragazzi di vent’anni che riconoscono, a fianco dell’importanza di “ripulire il territorio dagli esponenti del cartello”, anche la follia dell’impresa in cui si sono lanciati.

È l’altro volto delle autodifese, quello di chi ha imbracciato le armi sull’onda dell’entusiasmo per poter finalmente rispondere al fuoco dei Templari ma non sembra avere una chiara percezione degli interessi in gioco, né economici né tanto meno politici. Seguono i movimenti dei loro leader in quello che si configura sempre più come un pantano di alleanze e scontri, con sullo sfondo la presenza interessata e minacciosa del governo. Si nutrono delle parole di incoraggiamento dei capi, sono gli esecutori materiali delle loro strategie ma non esprimono opinioni e il loro generico desiderio di vivere in pace cozza con l’evidenza dell’altra battaglia si sta svolgendo al fianco di quella armata, la battaglia per il controllo dell’impero economico dei Templari in cui il movimento delle autodifese ha creato un allettante vuoto di potere.

Negli ultimi due mesi nella regione di Tierra Caliente è successo tutto e il contrario di tutto. Hipólito Mora, leader della comunità di La Ruana è stato accusato da Simón el Americano, leader di un altro gruppo armato, di complicità nell’omicidio di due integranti delle Autodifese di Buenavista e arrestato. Il dottor Mireles, leader di Tecalpatepec e presidente del Consiglio delle Autodifese di Michoacán, percorre lo stato in cerca degli “ultimi templari”, rilasciando dichiarazioni contrastanti e accordando con il governo il disarmo del movimento, che dovrà avvenire entro il 10 di maggio. Gli integranti del movimento non hanno alcuna intenzione di consegnare gli unici mezzi che hanno per difendersi dalla vendetta dei Templati. Prevedere l’esito delle contrattazioni e degli accordi che si stanno stringendo in Michoacán è impossibile, l’unica cosa certa è che per tutti i Miguel che si stanno aggirando armati per lo stato la “caccia ai Templari” non è finita.

Né cani né Templari. Intervista a Padre Gregorio López.

Apatzingán, Michoacán. Padre Goyo ci riceve ai tavoli di plastica di un ristorante di pesce, appena prima di prendere parte a quello che ha tutta l’aria di essere un pranzo d’affari. Siamo a un paio di isolati dal centro di Apatzingán, la “roccaforte” dei Cavalieri Templari la cui capitolazione è iniziata l’8 febbraio scorso, quando le “truppe” di autodifesa di Hipólito Mora sono entrate scortate dalla polizia federale.

Il sollevamento in armi della popolazione civile dello stato di Michoacán, nel Messico occidentale, non è notizia di oggi. Nel mese di giugno dell’anno scorso, da un rancho della città di Tecapaltepec, altro centro nevralgico della regione di Tierra Caliente, un uomo sulla cinquantina di nome José Manuel Mireles Valverde, seduto su una sedia di ferro e con un fucile a portata di mano, rilasciava un’intervista all’agenzia messicana di stampa indipendente SubVersiones. Per la prima volta, le ragioni dei gruppi armati denominatisi Autodefensas venivano spiegate dalla loro stessa voce, dopo che nei cinque mesi intercorsi dalla loro nascita si era soltanto speculato su chi fornisse a questi cittadini armi e denaro per condurre una guerra al crimine organizzato partita tutta dal basso. Per la prima volta si parlava delle decine di donne sequestrate, violentate e uccise, dei ragazzi decapitati, delle estorsioni e i sequestri che avevano portato la popolazione di intere città a ribellarsi ai narcotrafficanti perché, in ogni caso, non avrebbero avuto nulla da perdere. A un anno da quel sollevamento armato, le figure di rilievo del movimento non sono cambiate. E tra queste, nonostante i richiami della diocesi di Morelia e le minacce dei narcos, è ancora in prima linea Padre Gregorio López, la cui voce continua a tuonare nei registratori della stampa come nella navata della cattedrale.

“La società ne aveva abbastanza. Il cartello dei Cavalieri Templari è nato qui e qui è diventato un uragano, un tornado, ha smantellato tutto, la giustizia, la sovranità, l’educazione, l’economia. Se qualcuno doveva alzare la voce, questo qualcuno era la Chiesa, perchè se rimaneva qualcuno non colluso con questo cartello della morte era la Chiesa. E disgraziatamente colui che dovette alzare la voce fui io, indossai un giubbotto antiproiettile per attrarre l’attenzione dei media e del mondo e funzionò”.

Sono passati mesi da quando padre Goyo diceva messa col giubbotto antiproiettile e Apatzingán non si può ancora definire “liberata”. I pick up delle autodifese circolano a mo’ di ronda armata e si respira tensione. In un Messico patria della lentezza, qui tutti vanno di fretta. Nella marisquería Brisas del Mar, invece, l’atmosfera è quella dell’accordo e della ricostruzione. Il 3 marzo una moltitudine di civili ha occupato il municipio, esigendo l’allontanamento del presidente municipale Uriel Chávez Mendoza e ora al Consiglio delle Autodifese spetta il compito più difficile, la riorganizzazione sociale, politica ed economica del territorio. Dopo il rientro del dott. Mireles a Tepalcatepec, le riunioni tra i leader delle autodifese si svolgono quasi quotidianamente e Padre Goyo si muove in questo scenario politico delicato, tessendo relazioni per risolvere i problemi di una società di cui si sente “voce profetica”.

“Questa mattina ho partecipato a una riunione in cui ho chiesto che quattro aziende dello stato assumano ciascuna cento vedove, e ci sono 3100 bambini rimasti orfani per ciascuno dei quali voglio una borsa di studio, perché possano terminare le superiori. (…) Mi preoccupano i prigionieri arrestati ingiustamente, tutte le persone che sono finite in questo sottomondo e le trecento donne che mostrano la foto dei loro figli sequestrati e mai più ritrovati mentre il presidente municipale sa dove sono, perché fu lui ad ordinarne la cattura. Lui che era totalmente venduto ai narcos, che permise che la sua campagna elettorale fosse pagata dal cartello e per questo dovette lavorare per loro, avendo però libertà di scegliere tra le quattro opzioni che i criminali offrivano circa la vita dei sequestrati: liberarli, incarcerarli, lasciare che rimanessero desaparecidos o ucciderli. E di queste quattro possibilità non scelse mai quella della liberazione, era un Nerone che decideva della vita e della morte”.

Padre Goyo mette in chiaro che lui “parla duro”, che non ha intenzione di scendere a patti con i criminali e che intende continuare a unire alla veemenza della denuncia politica la solennità della condanna cristiana. Non risparmia nessuno, dalla sicurezza pubblica, esercito e polizia, che erano completamente infiltrati dai sicari del cartello, agli altri sacerdoti, che “sono dei codardi, hanno paura, sanno che è una questione politica e cercano solo il modo di accomodarsi”. Dice di avere una buona relazione con il Vaticano, di essere in contatto costante con Monsignor Becker e Monsignor Ladari, ed è convinto di essere nel giusto, di non aver mai commesso nessun illecito, nessun delitto, di muoversi all’interno del diritto canonico, di lottare a fianco dei suoi fedeli senza aver mai posseduto un’arma né minacciato nessuno. Ma “le armi sì, sono necessarie, necessarie e urgenti”, perché “come dice l’articolo 39 della Costituzione Messicana, quando lo Stato non sa compiere il proprio dovere, tocca ai cittadini organizzarsi, perché il vero potere sta nel popolo”.

L’analisi che padre Goyo fornisce della società michoacana in mano ai Templari è puntuale, chiara la dinamica con cui i narcos si inserirono nel tessuto sociale intaccando i quattro settori fondamentali della vita della popolazione, primo fra tutti la religione, con la creazione di una corrente new age mista a nichilismo nietzschiano chiamata Vida vidal e ispirata ai precetti di Nazario Moreno Gonzales, capo supremo del cartello dato per morto nel 2010 ma che sarebbe invece caduto il 9 marzo nel corso di un operativo federale. E poi l’economia, che il cartello riuscì a corrompere totalmente, la politica e la giustizia, con le elezioni comprate e il sistema giudiziario capillarmente infiltrato. Nelle parole del vicario, il cartello fu più di un’organizzazione criminale, fu un fenomeno sociale. E, come tale, nella società trova la chiave di lettura del suo successo: la disoccupazione, di cui il padre responsabilizza direttamente il governo e che ha costretto milioni di messicani all’emigrazione, ha allo stesso tempo obbligato chi è rimasto a prendere la strada del crimine, perché “la fame rende possibile qualunque conversione”. A nome di queste persone dice di parlare padre Goyo, che ha voluto “essere voce di coloro che non hanno voce, di avere coraggio anche per chi non ce l’ha”. E nei suoi occhi leggiamo effettivamente la volontà di ricostituire un ordine, a patto però, ci sembra di capire, che lui ne sia uno degli artefici. E finora lo è stato, almeno a livello mediatico, assieme ad altri leader dall’immagine forte come Mireles, Mora e Beltrán. Ma lo scenario michoacano cambia veloce e il crollo repentino della struttura templaria ha lasciato un vuoto di potere che è ancora in fase di assestamento, ed è difficile prevedere chi sarà travolto e chi salvato.

“Io continuo. E chi vuole seguirmi, prenda la sua croce e mi segua”. Così ci congeda, e passa al tavolo a fianco a stringere altre mani, che hanno l’aria di poterlo aiutare a vincere questa crociata in cui, ironia della storia, stavolta i Templari sono i nemici.

Una settimana esatta dopo quest’incontro con padre Goyo, il leader delle autodifese de La Ruana Hipólito Mora è stato arrestato per complicità nell’omicidio di due integranti delle autodifese capeggiate da Simón el Americano, altro leader originario de La Ruana ma operante principalmente in Buenavista Tomatlán. La mattina seguente all’arresto di Mora, il 12 marzo, padre Goyo ci ha inviato un messaggio denunciando l’assedio de La Ruana da parte delle truppe di Simón. Richiamato per avere dettagli, ci ha informati di non poter parlare perché in procinto di lasciare il paese. Da allora se ne sono perse le tracce.