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Né cani né Templari. Intervista a Padre Gregorio López.

Apatzingán, Michoacán. Padre Goyo ci riceve ai tavoli di plastica di un ristorante di pesce, appena prima di prendere parte a quello che ha tutta l’aria di essere un pranzo d’affari. Siamo a un paio di isolati dal centro di Apatzingán, la “roccaforte” dei Cavalieri Templari la cui capitolazione è iniziata l’8 febbraio scorso, quando le “truppe” di autodifesa di Hipólito Mora sono entrate scortate dalla polizia federale.

Il sollevamento in armi della popolazione civile dello stato di Michoacán, nel Messico occidentale, non è notizia di oggi. Nel mese di giugno dell’anno scorso, da un rancho della città di Tecapaltepec, altro centro nevralgico della regione di Tierra Caliente, un uomo sulla cinquantina di nome José Manuel Mireles Valverde, seduto su una sedia di ferro e con un fucile a portata di mano, rilasciava un’intervista all’agenzia messicana di stampa indipendente SubVersiones. Per la prima volta, le ragioni dei gruppi armati denominatisi Autodefensas venivano spiegate dalla loro stessa voce, dopo che nei cinque mesi intercorsi dalla loro nascita si era soltanto speculato su chi fornisse a questi cittadini armi e denaro per condurre una guerra al crimine organizzato partita tutta dal basso. Per la prima volta si parlava delle decine di donne sequestrate, violentate e uccise, dei ragazzi decapitati, delle estorsioni e i sequestri che avevano portato la popolazione di intere città a ribellarsi ai narcotrafficanti perché, in ogni caso, non avrebbero avuto nulla da perdere. A un anno da quel sollevamento armato, le figure di rilievo del movimento non sono cambiate. E tra queste, nonostante i richiami della diocesi di Morelia e le minacce dei narcos, è ancora in prima linea Padre Gregorio López, la cui voce continua a tuonare nei registratori della stampa come nella navata della cattedrale.

“La società ne aveva abbastanza. Il cartello dei Cavalieri Templari è nato qui e qui è diventato un uragano, un tornado, ha smantellato tutto, la giustizia, la sovranità, l’educazione, l’economia. Se qualcuno doveva alzare la voce, questo qualcuno era la Chiesa, perchè se rimaneva qualcuno non colluso con questo cartello della morte era la Chiesa. E disgraziatamente colui che dovette alzare la voce fui io, indossai un giubbotto antiproiettile per attrarre l’attenzione dei media e del mondo e funzionò”.

Sono passati mesi da quando padre Goyo diceva messa col giubbotto antiproiettile e Apatzingán non si può ancora definire “liberata”. I pick up delle autodifese circolano a mo’ di ronda armata e si respira tensione. In un Messico patria della lentezza, qui tutti vanno di fretta. Nella marisquería Brisas del Mar, invece, l’atmosfera è quella dell’accordo e della ricostruzione. Il 3 marzo una moltitudine di civili ha occupato il municipio, esigendo l’allontanamento del presidente municipale Uriel Chávez Mendoza e ora al Consiglio delle Autodifese spetta il compito più difficile, la riorganizzazione sociale, politica ed economica del territorio. Dopo il rientro del dott. Mireles a Tepalcatepec, le riunioni tra i leader delle autodifese si svolgono quasi quotidianamente e Padre Goyo si muove in questo scenario politico delicato, tessendo relazioni per risolvere i problemi di una società di cui si sente “voce profetica”.

“Questa mattina ho partecipato a una riunione in cui ho chiesto che quattro aziende dello stato assumano ciascuna cento vedove, e ci sono 3100 bambini rimasti orfani per ciascuno dei quali voglio una borsa di studio, perché possano terminare le superiori. (…) Mi preoccupano i prigionieri arrestati ingiustamente, tutte le persone che sono finite in questo sottomondo e le trecento donne che mostrano la foto dei loro figli sequestrati e mai più ritrovati mentre il presidente municipale sa dove sono, perché fu lui ad ordinarne la cattura. Lui che era totalmente venduto ai narcos, che permise che la sua campagna elettorale fosse pagata dal cartello e per questo dovette lavorare per loro, avendo però libertà di scegliere tra le quattro opzioni che i criminali offrivano circa la vita dei sequestrati: liberarli, incarcerarli, lasciare che rimanessero desaparecidos o ucciderli. E di queste quattro possibilità non scelse mai quella della liberazione, era un Nerone che decideva della vita e della morte”.

Padre Goyo mette in chiaro che lui “parla duro”, che non ha intenzione di scendere a patti con i criminali e che intende continuare a unire alla veemenza della denuncia politica la solennità della condanna cristiana. Non risparmia nessuno, dalla sicurezza pubblica, esercito e polizia, che erano completamente infiltrati dai sicari del cartello, agli altri sacerdoti, che “sono dei codardi, hanno paura, sanno che è una questione politica e cercano solo il modo di accomodarsi”. Dice di avere una buona relazione con il Vaticano, di essere in contatto costante con Monsignor Becker e Monsignor Ladari, ed è convinto di essere nel giusto, di non aver mai commesso nessun illecito, nessun delitto, di muoversi all’interno del diritto canonico, di lottare a fianco dei suoi fedeli senza aver mai posseduto un’arma né minacciato nessuno. Ma “le armi sì, sono necessarie, necessarie e urgenti”, perché “come dice l’articolo 39 della Costituzione Messicana, quando lo Stato non sa compiere il proprio dovere, tocca ai cittadini organizzarsi, perché il vero potere sta nel popolo”.

L’analisi che padre Goyo fornisce della società michoacana in mano ai Templari è puntuale, chiara la dinamica con cui i narcos si inserirono nel tessuto sociale intaccando i quattro settori fondamentali della vita della popolazione, primo fra tutti la religione, con la creazione di una corrente new age mista a nichilismo nietzschiano chiamata Vida vidal e ispirata ai precetti di Nazario Moreno Gonzales, capo supremo del cartello dato per morto nel 2010 ma che sarebbe invece caduto il 9 marzo nel corso di un operativo federale. E poi l’economia, che il cartello riuscì a corrompere totalmente, la politica e la giustizia, con le elezioni comprate e il sistema giudiziario capillarmente infiltrato. Nelle parole del vicario, il cartello fu più di un’organizzazione criminale, fu un fenomeno sociale. E, come tale, nella società trova la chiave di lettura del suo successo: la disoccupazione, di cui il padre responsabilizza direttamente il governo e che ha costretto milioni di messicani all’emigrazione, ha allo stesso tempo obbligato chi è rimasto a prendere la strada del crimine, perché “la fame rende possibile qualunque conversione”. A nome di queste persone dice di parlare padre Goyo, che ha voluto “essere voce di coloro che non hanno voce, di avere coraggio anche per chi non ce l’ha”. E nei suoi occhi leggiamo effettivamente la volontà di ricostituire un ordine, a patto però, ci sembra di capire, che lui ne sia uno degli artefici. E finora lo è stato, almeno a livello mediatico, assieme ad altri leader dall’immagine forte come Mireles, Mora e Beltrán. Ma lo scenario michoacano cambia veloce e il crollo repentino della struttura templaria ha lasciato un vuoto di potere che è ancora in fase di assestamento, ed è difficile prevedere chi sarà travolto e chi salvato.

“Io continuo. E chi vuole seguirmi, prenda la sua croce e mi segua”. Così ci congeda, e passa al tavolo a fianco a stringere altre mani, che hanno l’aria di poterlo aiutare a vincere questa crociata in cui, ironia della storia, stavolta i Templari sono i nemici.

Una settimana esatta dopo quest’incontro con padre Goyo, il leader delle autodifese de La Ruana Hipólito Mora è stato arrestato per complicità nell’omicidio di due integranti delle autodifese capeggiate da Simón el Americano, altro leader originario de La Ruana ma operante principalmente in Buenavista Tomatlán. La mattina seguente all’arresto di Mora, il 12 marzo, padre Goyo ci ha inviato un messaggio denunciando l’assedio de La Ruana da parte delle truppe di Simón. Richiamato per avere dettagli, ci ha informati di non poter parlare perché in procinto di lasciare il paese. Da allora se ne sono perse le tracce.